Perchè ho usato l’odiosa “arma” della querela

Le chiaccchiere sui social di ieri mi “obbligano” a delle precisazioni in merito ad una vicenda che mi vede coinvolto e cui, prima, non avevo dato evidenza perché ne auspicavo un diverso epilogo.

Un pubblicista, ieri, sul periodico di sua proprietà che viene da qualche tempo distribuito nei bar cittadini, ha dato notizia di un procedimento giudiziario di cui sarebbe imputato e nato da una mia querela nei suoi confronti. L’articolo in questione poi è stato diffuso su Facebook.

La notizia, naturalmente, è vera.

Il pubblicista, tuttavia, non precisa i contorni della vicenda cercando di passare per “vittima” e proponendo, nei fatti, me come “carnefice” della libertà di stampa.

Io non ci sto. I fatti, ovviamente, non stanno così.

Non voglio fare, tuttavia, un processo sul web, né tanto meno sui social.

Anzi, per la verità, io non voglio proprio fare alcun processo. Desidero solo essere risarcito con delle scuse formali della pubblicazione d’un articolo, a mia lettura “sconveniente”, avvenuta lo scorso 27 ottobre 2016 sul giornale in questione.

L’articolo, per chi volesse farne propria scienza, è ancora scaricabile e leggibile a pag. 7 dell’edizione in PDF che si trova a questo link.

Purtroppo, le scuse non sono mai arrivate; e solo per questo che ci troviamo in giudizio.

Chi scrive è sempre pronto, in qualsiasi momento, a rimettere la querela.

Questa vicenda, infatti, mi sta mettendo in profondo disagio interiore.

Chi mi conosce sa, infatti, che, personalmente, sono per la depenalizzazione del reato di diffamazione (come è già avvenuto per le “ingiurie”). Magari salvo casi di pubblicazione di fatti evidentemente falsi ed estremamente gravi.

Io credo, aggiungo, che chi è stato “diffamato”, e ne ha subito un danno, materiale o solo esistenziale, ha sempre la strada del procedimento civile per chiedere il risarcimento.

Esiste, in tal senso, una proposta legislativa in Parlamento. Tuttavia, alcune parti politiche – segnatamente del centrodestra – l’hanno ostacolata. E’ più comodo tenere “a guinzaglio” i cittadini per evitare esternazioni critiche dannose per la loro carriera politica.

Tuttavia, il caso in questione è “interessante” anche sotto altri aspetti.

In Paese, l’Italia, con una forte deriva “giustizialista”, con gente che si fa “giustizia” da sola (vedi il recente caso di pestaggio Palermo) o dove parti politiche reclamano la libertà dell’uso di armi per «difendere famiglia e casa» credo che sia utile ricordare la nostra “stella polare”, la Costituzione.

Questa dimenticata e vituperata Costituzione, all’art. 27, stabilisce ancora, tra altro pure importante, che «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».

L’estensore dell’articolo di cui parliamo, dimentico di questa norma, scrisse di me che «Diffamò un webmaster. Il blogger Natale Salvo è stato condannato a due mesi e venti giorni di reclusione».

Non usò il verbo al condizionale. Non ebbe il minimo dubbio. Non riconobbe che potevo invece essere innocente e vittima d’un errore giudiziario.

Lo scorso 13 novembre 2017 la Corte d’Appello di Palermo mi ha assolto per «il fatto non sussiste», cioè con la formula più ampia possibile.

Io desidero solo le scuse per quella “certezza” di colpevolezza che il secondo grado di giudizio ha dimostrato proprio non esserci. Anzi.

Questione di “lana caprina”? Io non credo proprio.

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