Due paroline sul mercato del lavoro
E’ in piedi nel mondo una discussione strategica su come affrontare il tema dell’aumento del tasso di occupazione.
Tale discussione prende spunto da tre lineari considerazioni: nel mondo esistono già oggi 800 milioni di disoccupati e sottoccupati; L’evoluzione del processo di “informatizzazione” taglierà, e già sta tagliando, ulteriori posti di lavoro; Mai qualunque livello di sottopagamento della “prestazione” umana sarà competitivo, dal punto di vista economico, all’affidamento della prestazione lavorativa a computer e robot.
Tutti discutono sul gravissimo problema della disoccupazione.
Tante sono le idee, ma due le linee sulle quali esse, principalmente, si muovono:
1) la linea conservatrice, che qualche politico di governo, in accordo con gli industriali, vorrebbe far passare per rivoluzionaria;
2) la linea progressista, che qualcun altro propugna, inascoltato, da anni, ma che viene contrastata anche dalla parte moderata del centro-sinistra.
La linea conservatrice viene elaborata nel “libro bianco sul mercato del lavoro” redatto, sotto l’occhio vigile del Ministro del lavoro il leghista Maroni, da un gruppo di professionisti coordinati da un tal Maurizio Sacconi e dal povero Marco Biagi.
Nel “libro bianco”, tanto discusso, ma, probabilmente, scarsamente conosciuto si propugna l’idea che il lavoro si “troverebbe” secondo due semplici strategie:
a) sviluppare interventi sul “costo del lavoro” per unità di prodotto, e, più in particolare, sulle singole componenti in cui tale “costo” si articola: retribuzioni, cuneo fiscale, produttività (pag.45 del “libro bianco“);
b) sviluppare un “mercato del lavoro” più flessibile – caratterizzato da maggiori flussi di creazione e distruzione di posti di lavoro e da una maggiore incidenza di carriere e percorsi lavorativi più irregolari e discontinui nel tempo (pag. 54).
Traducendo i “pomposi” termini vuol dire: Abbassiamo le paghe orarie, riduciamo i contributi pensionistici (e conseguenza le pensioni), aumentiamo lo sfruttamento dei lavoratori, togliamo loro sicurezza e garanzie di continuità del lavoro, togliamo loro le tutele sui licenziamenti individuali e … Gli imprenditori non avranno di “paura” di assumere e di investire nel “capitale umano” (che brutto termine).
Sacconi & Biagi probabilmente trascurano il terzo punto indicato nella premessa, vale a dire che nessun sottopagamento della “prestazione” umana sarà mai competitivo quanto l’uso di una macchina (computer o robot).
Il Ministero del Lavoro scorda forse che il “costo del lavoro” nei paesi dell’est europeo o dell’Asia, per citare qualcosa, è talmente più basso da risultare irraggiungibile.
Questa “trascuratezza” dovrebbe, a molti, far capire che l’idea del governo Berlusconi è quella di far aumentare i “profitti” a lui stesso ed ai suoi amici industriali. Ma il “libro bianco” non si ferma a indicare le linee strategiche, va più a fondo, propone le “cure” contro la disoccupazione o, per l’arricchimento maggiore dei padroni, fate voi.
Con un contorsionismo all’altezza dei migliori ginnasti del circo Orfei, spiega che la lotta di classe non si fa tra “lavoratori” e certi “padroni sfruttatori”: no va fatta tra i “lavoratori”, gente cattiva ed egoista, privilegiata ed iper-tutelata, ed i “disoccupati”, gente abbandonata a se stessa e quindi sotto-tutelata.
Quindi con una nuova “contorsione”, quasi extraterreste, aggiunge che alcuni interventi per la lotta alla disoccupazione sono:
a) Incentivare la “permanenza dei lavoratori anziani nella vita lavorativa” (e così non si “liberano” posti per le nuove leve);
b) Minimizzare gli “ammortizzatori sociali” in quanto disincentivi al lavoro, non vietando, però, che i “lavoratori”, per propria autonoma decisione si paghino, di tasca propria, assicurazioni private contro la disoccupazione (senza parole!);
c) Creare “differenziali nei costi del lavoro tra aree territoriali” (stipendi e salari più bassi al sud e per i giovani e le donne);
d) Modificare l’art. 18 dello “statuto dei lavoratori” prevedendo che, in caso di “licenziamento illegittimo”, cioè pretestuoso, riconosciuto dal Giudice, non si reitegri il lavoratore ma lo si “contenti” con un “sacchetto di monete” (come se la dignità fosse merce). Ciò equivarrebbe a vi-vere, e lavorare, tutta la vita sotto il “ricatto”, la “minaccia”, la “paura”.
La linea progressista, invece, è stata lanciata, sia da politici di sinistra (nel 1996, da Fausto Bertinotti, leader del partito della Rifondazione Comunista) e sia da conosciuti ed apprezzati economisti (nel 1995, l’americano Jeremy Rifkin).
Bertinotti si lanciò nella “battaglia delle 35 ore”, Rifkin giunge, addirittura, a promuovere la settimana lavorativa di 30 ore, secondo il concetto “lavorare meno per lavorare tutti”.
Le idee di Bertinotti e Rifkin, non sono poi così strampalate, se si ricorda che all’inizio del secolo anche le attuali 40 ore lavorative erano un miraggio, per i lavoratori dell’epoca che erano sfruttati dall’alba al tramonto, sei giorni su sette.
Nel libro “La fine del lavoro“, Rifkin, ricorda che già nel 1932, in America, per uscire dalla “grande crisi del 1929“, si propose una legge, la “legge Black-Connery“, per la riduzione della disoccupazione rendendo obbligatoria la settimana di 30 ore. La legge fu approvata dal senato americano, ed in commissione alla Camera.
L’allora presidente Roosevelt, sotto la spinta degli imprenditori, riuscì a “convincere”, però, la Camera a bocciare il provvedimento.
La linea progressista è indubbiamente in contrasto con la precedente, perché non parla di aumentare gli “utili” per le aziende, ma parla di ridurre gli orari a parità di salari, parla di “stornare” a favore dei lavoratori parte degli aumenti di produttività ottenuti dalle aziende con l’ingresso di computer e robot nel “ciclo” produttivo.
E’ una linea che parla delle “famiglie”, del “tempo libero” delle famiglie.
E’ una linea che sostiene che il maggiore tempo libero dei “lavoratori” aprirebbe la via, oltre che ad una vita più serena e felice, a nuove figure di lavori e lavoratori nel sociale.
Il Governo, e parte del centro-sinistra, avversano questa linea progressista. Vedono solo il “mercato” e partono, lancia in resta, all’attacco del “simbolo” del conservatorismo (dicono loro, io direi del diretto, della dignità), cioè dell’art. 18. Dopo gli scioperi della CGIL, contro l’abolizione dell’art. 18, ma anche a difesa di salari e pensioni, anche partiti e movimenti sono scesi in campo non per fare una “battaglia di retrovia”, bensì di “prima linea”, cioè d’attacco.
Rifondazione Comunista, ed o Verdi, ma anche l’ala sinistra dei Democratici di Sinistra (la corrente “socialismo 2000” di Salvi), stanno promuovendo due “Referendum sociali” per allargare la tutela dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori anche per i dipendenti delle Aziende con meno di 15 dipendenti (che poi sono circa metà delle Aziende Italiane).
I “referendum sociali”, hanno avuto successo. Hanno raggiunto e superato le 500.000 firme e quindi la prossima primavera 2003 avremo la possibilità di dire NO alla linea conservatrice e liberticida del Governo nella politica del “mercato del lavoro”, e dare un messaggio alla Destra e a quella parte del centro- sinistra che non lo capisce: “la dignità dei lavoratori non si tocca!”.