Giustizia Ingiusta: Cesare Beccaria 250 anni fa aveva capito tutto
Trapani, 29 marzo 2015 – Andando a preparare i lavori della Conferenza “Colpevoli fino a prova contraria”, co-organizzata assieme ad altri amici, mi sono imbattuto in un Cesare Beccaria. Tale pensatore, nel 1764, proprio 250 anni fa, aveva scritto “Dei delitti e delle pene”, come sanno molti, illustrando un pensiero illuminista oggi ancora modernissimo, seppure ostacolato e combattuto dall’evidente decadenza culturale e morale, un vero e proprio oscurantismo, in cui siamo piombati.
In particolare, nella propria opera, un vero best seller filosofico all’epoca, Cesare Beccaria scriveva auspicando la “dolcezza delle pene”: «Uno dei piú gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati».
In altre parole, «La certeza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro piú terribile, unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, ne allontana sempre l’idea dei maggiori».
Anzi, per Beccaria, se la pena è troppo pesante, non è proporzionale, si rischia di ottenere l’effetto contrario a quello sperato dal legislatore: «L’atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto di piú per ischivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano piú delitti, per fuggir la pena di un solo».
Conseguentemente, Cesare Beccaria si schiera contro la pena di morte: «Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili?», si domanda il filosofo. «Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno piú forte contro i delitti», sostiene Beccaria.
Egualmente il filosofo si pone contro la tortura: «Il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati», scrive in “Dei delitti e delle pene”.
Ed allora come si prevengono i Delitti? Per Beccaria, «È meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo è il fine principale d’ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d’infelicità possibile».
«Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere. La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo di tutti al comodo di alcuni pochi».
In conclusione, «Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici. Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi. Fate che gli uomini le temano».
Ciò non toglie che Beccaria non ammetta la “prescrizione”: «i delitti minori ed oscuri – scrive – devono togliere colla prescrizione l’incertezza della sorte di un cittadino, perché l’oscurità in cui sono stati involti per lungo tempo i delitti toglie l’esempio della impunità, rimane intanto il potere al reo di divenir migliore».
Ancora, serve disporre di Magistrati in buon numero così da evitare i Tribunali Monocratici, che, per Beccaria, sono a rischio di facile «corruzione»: «Quanto maggiore è il numero che lo compone (la Giuria, NdR) tanto è meno pericolosa l’usurpazione sulle leggi, perché la venalità è piú difficile tra membri che si osservano tra di loro, e sono tanto meno interessati ad accrescere la propria autorità, quanto minore ne è la porzione che a ciascuno ne toccherebbe, massimamente paragonata col pericolo dell’intrapresa».
Infine, «Finalmente il piú sicuro ma piú difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione».